Non si scrive su una pagina bianca, come diceva De Certeau.
La pagina bianca, solcata di inchiostro, diventa leggibile in ragione della familiarità, tacitamente presupposta, del cervello di chi legge con le lettere, le parole, le frasi.
Subito, queste fanno una differenza per chi può confrontarle con frasi, parole, lettere, organizzate in modo analogo, su altre pagine.
Imparare a leggere, è confrontarsi con l’illeggibile finché questo diventi leggibile. Accumulare lettere, parole, frasi, finché queste diventino il paragone di ogni possibile, futura leggibilità.
In questo senso, si scrive sempre su una pagina nera, già solcata da innumerevoli inchiostri, la cui traccia sopravvive alla memoria tematica, come una competenza.
Si scrive per chi sa, per chi può leggere.
In questo senso, si scrive per chi sa, e ciò che di nuovo si può dire dipende da questo comune intendere, da una distribuzione di senso condivisa, oltre la quale lo scritto diventa balbettio arcano e astruso.
Io e Umberto siamo amici da quando non sapevamo ancora leggere, né scrivere, amici da prima di saper parlare, e forse prima di saper camminare. In nessuno dei miei ricordi compare un attimo in cui non lo conoscessi. Per questo, ci capiamo ancora prima di mettere in fila le parole necessarie a capirci, e non di rado discorrendo percorriamo con passi diversi la stessa strada, godendo del non saperci soli.
In una sera qualunque, di fronte a un bicchiere di birra sarda, parliamo del mondo e delle cose, come sempre, e la discussione cade sulla novità epocale dell’epoca mediatica corrente. Parliamo di influencers, di coloro il cui mestiere consiste nell’essere visibili. In particolare, parliamo dei più famosi: Fedez pare abbia una brutta malattia, e come è d’uso le sue lacrime trattenute sono sullo schermo, a disposizione dell’universo.
Come si vive così, ci chiediamo. Come si vive in pasto alla moltitudine di occhi? E soprattutto, perchè?
Ciò che ho da spiegare, da far capire a colui che da sempre più di ogni altro ha saputo capirmi, è uno strano sospetto, una critica che deve muoversi acuta e antipatica, penetrare la simpatia che inevitabilmente mi ispira un giovane semplice e sincero, afflitto da un terribile male.
Vedi, dico, il problema non è l’essere umano. Certo, è difficile distogliere gli occhi. Lo spettacolo della famiglia Ferragni è totale: esso non si ferma di fronte alle doglie, di fronte alle lacrime, espone ed evidenzia i particolari più intimi. La lente instancabile segue ogni attimo quotidiano, ogni normalissima emozione di vite che somigliano a tutte le vite.
Non vi è alcunché di eccezionale, da vedere. Ecco una ragazza normale, un ragazzo normale, come ognuno è. Il gusto è lo stesso che si ritrova nel sapere i guai e le gioie del vicino di casa nel paesino. Un senso di comunità implicita, che l’avanzare brutale deterritorializzante della società industriale avanzata ci strappa nel nomadismo tardocapitalista di vite lanciate all’inseguimento di una realizzazione personale, di una vita decente, come se fosse normale.
Umberto mi guarda sornione, e capisco che il lessico mi ha preso la mano. Devo ripetermi, usando parole più solide. Questa, dico, è la logica di radioserva, che non cerca la novità, l’inconsueto, l’assurdo, l’opera d’arte sublime. Questo è il gusto semplice dei cazzi altrui. La familiarità che è potentissima forza aggregante. Questi ragazzi, dopotutto, li abbiamo visti crescere, e sperare, e vincere, e soffrire le normali sofferenze, di tutti, e cercare anche di cambiare il mondo, a loro modo.
E allora? Cosa c’è di pericoloso? Cosa c’è da sospettare? Forse che siano “finti”, come si dice nel lessico della barbarie televisiva, nei salotti di Uomini e Donne? Forse che la rappresentazione non coincida con la realtà? Ciò è semplicemente impossibile: troppo serrata è la marcia della rappresentazione, troppo invasiva la presenza della telecamera, per supporre una recita. Diciamo che essi sono esattamente ciò che si vede, esattamente ciò per cui si mostrano.
E allora? Allora, dico io, è proprio questo il trucco.
Perché nell’epoca della condivisione, il media non è la pagina, non è lo schermo. Il media è la carne, è la vita, e il messaggio è il prodotto. La merce è ovunque: è il trucco, è il vestito, è l’arredamento, è la forma di vita. Il prodotto è la vita stessa. Proprio che sia normale e vivo l’influencer, proprio che le sue esperienze siano genuine, reali, è ciò che introduce nelle nostre vite la merce che invade la loro.
L’influencer non è l’autore, non è il messaggio, è la pagina. Il capitalismo, che non può essere scritto sulla pagina – come disse Deleuze: esso è analfabeta, non conosce idee, né contenuti – può incidersi nella carne.
Tanto più vera, più viva, la carne, tanto più forte la scrittura, tanto più serrato il discorso senza parole né idee del capitale.
Separare la merce dalla carne ormai è impossibile. Il paralogismo del capitale è il farsi-merce della carne viva, del desiderio – onlyfans! Twitch! – la monetizzazione del divertimento come dell’appeal. E alla merce-come-vita, alla vita-come-merce rivolgiamo i nostri sforzi e le nostre speranze, il nostro arrapamento e il nostro disgusto, senza poterci districare in una forma di senso che elude gli strali dei vecchi filosofi arrugginiti e rancorosi, i distinguo concettuali, le distinzioni semantiche.
Guarda negli occhi questo ragazzo che soffre, guarda oltre quegli occhi, e vedrai al tempo stesso un essere umano e una psy-op della propaganda capitalista. Rifiutalo, e rifiuterai insieme l’empatia e la merce.
Se ti mancherà l’acume di una coscienza sottile, il taglio crudele di Debord – che già lo raccontava a dovere, prima di vederlo al suo massimo grado di sviluppo, il vampirismo dello spettacolo sulla vita – non vedrai il limite, e sarà semplicemente questa, la tua realtà, prima di ogni ragionamento o idea, la forma di vita che è la forma del consumo, e il consumo che è vita.
Ho capito. Dice Umberto. E’ vero.
E mi basta.